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Quiet Quitting: un Nuovo Termine per Riconfermare il Bisogno di Leader Gentili

A partire dalla seconda metà di Agosto il termine “Quiet Quitting” ha subito un’impennata non indifferente di ricerche su Google Trends, fino a diventare il fenomeno del momento a causa dei social media. Risulta importante fare chiarezza su questo tema, anche perché, a dirla tutta, è un nuovo nome per un vecchio comportamento collettivo che grida aiuto ai vertici delle organizzazioni.

L’atto di “licenziarsi senza licenziarsi” fa riferimento a una tendenza annessa alla ridefinizione dell’approccio personale nei confronti della sfera lavorativa, lasciando sottintendere espressamente la volontà di lavorare quanto basta senza mai fare più del dovuto.

Il termine, adesso sempre più utilizzato come didascalia di numerosi video sui social media, in particolar modo TikTok, sintetizza un rifiuto collettivo di mettere il lavoro al centro della propria vita e, quindi, una volontà di ridefinire il tempo verso altre attività, relative al tempo libero,  al fine di soddisfare bisogni o desideri personali.

Dati alla mano

Secondo alcuni ricercatori, la diffusione di questa attitudine tra le persone è, in parte, una conseguenza di riflessioni favorite dalla pandemia, sul senso del lavoro e su una serie di tematiche esistenziali. L’insieme di queste condizioni avrebbe portato a una diffusa mancanza di motivazione e di entusiasmo, e in definitiva a una riduzione dell’impegno sul lavoro.

Secondo il rapporto sviluppato da Gallup, società di analisi dati e consulenza, in Italia soltanto il 4% dei lavoratori si dichiara pienamente coinvolto o entusiasta del proprio lavoro: è la percentuale più bassa tra quelle di tutti i 38 paesi europei considerati dalla ricerca. E la percentuale di soddisfazione generale in Europa è del 14%: la più bassa tra quelle di tutte le 10 aree del mondo prese in considerazione.

Anche negli Stati Uniti, dove il livello di soddisfazione è in generale più elevato rispetto ad altre aree, esiste comunque un marcato squilibrio generazionale: infatti circa il 54% dei nati dopo il 1989 riferisce di non sentirsi preso dal proprio lavoro.

I dati analizzati da Harvard Business Review, invece, scavano ancor più nel profondo di questa situazione. Prendendo in considerazione le figure manageriali, i dati indicano che il quiet quitting non riguarda tanto la volontà dei dipendenti di lavorare di più e in modo più creativo, quanto la scarsa capacità dei manager di costruire un rapporto di fiducia con i propri collaboratori.

Molte persone, a un certo punto della loro carriera, hanno lavorato per un manager che le ha spinte a lasciare tranquillamente il lavoro, avendo sperimentato la sensazione di sentirsi sottovalutate e poco apprezzate. Ne consegue che il quiet quitting può, in questo senso, essere inteso anche come una reazione a una leadership non ben esercitata.

Un fenomeno multi generazionale

La generazione Z sembra essere promotrice del quiet quitting, in quanto il denaro, per loro, potrebbe non essere l’aspetto più importante o che, quanto meno, non sarebbe paragonabile alla possibilità di avere più tempo a disposizione da dedicare a sé stessi.

Riportando le parole di Jingfang Cai L., vicepresidente per lo sviluppo dei talenti di Linkedin, si legge: «Questa giovane categoria di lavoratori esige che i datori di lavoro si occupino di loro come persone nel loro insieme. E la capacità di comprendere il loro percorso di carriera vale più di una busta paga».

In sostanza ci stiamo allontanando sempre più dal mito americano dell’hustle culture, ossia del dedicare la vita intera al lavoro per “fare e ottenere sempre di più”.

E, cosa ancor più interessante, è che la generazione Z non sembra essere l’unica a pensarla in questo modo. Gli “zoomer” si sono semplicemente fatti promotori di un malumore che in realtà era già diffuso da anni tra i lavoratori di tutte le età e che fino a questo momento si era nascosto dietro ad altri importanti fenomeni quali la Great Resignation, il Burnout o il Technostress e che ha portato a considerare il lavoro con cinismo e apatia.

Fiducia: una parola che può pesare quanto un posto di lavoro

Volendo riprendere l’analisi effettuata da Harvard Business Review, il fattore più importante è la fiducia. Dopo aver analizzato i dati di oltre 113.000 manager per individuare il comportamento principale che aiuta i leader efficaci a bilanciare i risultati con la preoccupazione per i membri del team, il fattore numero uno è stato la fiducia. Quando i collaboratori diretti si fidano del loro leader, pensano anche che il manager tenga a loro e si preoccupi del loro benessere.

La ricerca ha collegato la fiducia a tre comportamenti:

  • Uno, ossia avere rapporti positivi con tutti i propri collaboratori, ascoltandoli sinceramente;
  • Il secondo elemento è la coerenza, dunque mantenere ciò che viene promesso;
  • Il terzo e ultimo è la competenza. Conoscere bene il proprio lavoro ed essere chiari e consapevoli di ciò che si fa e di ciò che si delega, comunicando chiaramente.

Costruire un rapporto di fiducia con tutti i collaboratori riduce notevolmente l’insorgere di problematiche, tra cui quella discussa in questo articolo.

È facile attribuire la colpa a lavoratori pigri o demotivati, ma questa ricerca ci suggerisce di guardare dentro di noi e di riconoscere che le persone vogliono dare la loro energia, la loro creatività, il loro tempo e il loro entusiasmo alle organizzazioni e ai leader che lo meritano.

In conclusione una chiave di lettura del quiet quitting può essere quella di una richiesta di consapevolezza da parte di chi ha responsabilità aziendali a ridefinire il lavoro sotto una veste più etica. In sostanza, ora più che mai, c’è bisogno di interiorizzare e mettere in atto una sincera leadership gentile.

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